Close

Leo Strozieri

Pescara – Italia

2003   Dalla libido della Maria, un fiore

Irta di materialità spinta, con accenti sempre ferocemente univoci, la ricerca pittorica di Antoni Zago è più prossima al pensiero esistenzialista di quanto si possa immaginare e credere.

Intanto perché mentre si da voce alla fecondità, spunta sovrano l’impeto mortale verso questo neuma dell’amore, rappresentato dal fiore, frutto d’un coito misterioso e sacerdotale per solennità effettuato entro il perimetro e sotto la spinta irrazionale della libido della materia.

In tal senso l’arte di Zago si pone come metafisica, ovvero penetrazione del senso ultimo del reale, a fondamento del quale è posta appunto la materia caotica seppur energetica nella sua unità ed assolutezza, ove sono registrate tutte le declinazioni temporali e storiche, da quelle apollinee a quelle sempre frequenti orgiastiche dionisiache. Si vuol dire che l’artista prioritariamente apparecchia il sostrato violentemente laico della materia costruito – come vedremo – con grande libertà, oserei dire anarchica e spazialità segnica; in seguito su questo magma, a cui mai peraltro fa difetto quella umanistica “claritas”, propria di chi abbia familiarità piena con la cultura classica, inserisce elementi narrativi quali possono essere appunto un fiore o la sagoma di un rannicchiato uccellino-giocattolo meccanico, o ancora onirici squarci paesaggistici metropolitani.

Mi pare però che questi inserti, lungi dall’essere recepiti con intento decorativo, si configurino piuttosto come frammenti metafisici o allergici se si preferisce; come non leggere nella loro postura entro il perimetro d’una drammaticità segnica ed oggettuale quella “gettità” di cui parla il pensiero esistenziale per indicare lo smarrimento e la perdita di orientamento metafisico?

Pertanto tra follia e chiaroveggenza, ovvero ordine tenebroso di spossatezza mortale che generosa angoscia, ed ordine diurno, comunque di presenza/compresenza vitale/vitalistica, si pone in essere un’evidente dialettica che diventa sostanza stessa della pittura di Zago.

Occorre a questo punto, per suggerire ipotesi probanti di lettura delle sue opere, approfondire meglio i poli di questo gioco dialettico. Si dovrà iniziare dalle nevrotiche stesure materiche, fatte di intrecci, graffiti, grumi, accumuli progettualmente materici, talora razionalizzate da strutture geometriche per lo più quadrangolari: tutto un campionario di risulta, quasi di bassa periferia posto al margine di lirici brani di spazialità pura, che comunque non riesce ad esorcizzare una insistita negritudine di fondo. Si, perché le zone entro le quali si snodano poi le presenze vitali, sono diradate con un processo encomiabile stilisticamente di infinitizzazione, quale fenomeno di felicità senza limiti. Lo spazio è incipit irrinunciabile dell’artista perché sia snodo di luce al riparo di ogni deformazione. Un PRINCIPIO questo che può così essere enunciato: “La spazialità piena impedisce al germe di vita ogni processo metamorfico e quindi di deformazione”.

Occorre d’altro canto precisare come l’artista non abbia intenzione però di assolutizzare lo spazio, che avrebbe conferito al suo pensiero quell’autoreferenzialità ottimistica propria della tradizione agostiniana, ovviamente contraria alle referenze esistenziali a cui si faceva cenno nella parte iniziale di questa testimonianza critica. Ecco perché l’autore rinsalda in continuazione la sua simpatia per il colore nero, che talora sembra faccia il verso onomatopeico all’adiacente germinazione di segni e graffi deposti con violenza gestuale sulla superficie: ferite inferte allo scopo di produrre un senso di precarietà, di vacuità del reale.

La pittura di Antonio Zago vive e si nutre entro i confini densi e fumosi della “negritudine”, talora posta consapevolmente come basamento delle composizioni; nondimeno sono pressanti in lui i valori estetici che lo inducono a raccogliere stimoli derivati dall’uso di una più vasta gamma cromatica. Non sono rari i casi nei quali è dato registrare un’esplosione coloristica ove si sommano inventiva, gioco, gusto decorativo e persino anarchia nella giustapposizione dei segni policromatici.

E come non entusiasmarsi dinanzi ai suoi luminosi arancioni ed alle stesure dei suoi blu e degli ocra, che sono vestigia di una vocazione giovanile alla festività fastosa dei colori, che solo il dettato informale a cui si è avvicinato negli anni e riuscito a frenare.

L’aver formalizzato in tante opere le superfici in senso informale e vagamente espressionistico, non è stato per Zago atto formale di abiura nei confronti dell’iconismo; al contrario, forse memore di certe linee programmatiche dell’informale italiano (si pensi a l’Ultimo Naturalismo bolognese), non così orgiastico e dissacratorio verso la realtà esterna all’uomo, come quello d’oltralpe, è riuscito ad accendere e coltivare la fiamma oggettiva della figurazione, non in chiave larvale come accadeva ai vari Morlotti, Mandelli, ma in tutto il suo splendore formale, sebbene non realistico.

E’ dalle stanze della memoria che il nostro maestro attinge per proporre tematiche idilliache al riparo sempre da ogni tentazione di rozza fisicità, che sembra quasi eclissarsi sotto la spinta di una innata vena contemplativa.

Ed eco allora fiori, uccelli, qualche volta farfalle ed ancora rari scenari fiabeschi raffiguranti paesaggi con caseggiati in preda a metafisici silenzi: tutta una campionatura iconica che attraverso la potenzialità evocativa che solo i pittori di talento riescono ad esprimere, induce il fruitore a ripercorrere l’itinerario dal caos al cosmo: ossimoro di ogni esperienza umana dominata dalla consapevolezza del limite che però – dicono i credenti – trova la sua giustificazione nell’Assoluto.

Ora questo sentimento romantico del sacro, che mai gli studiosi della sua opera hanno approfondito in modo lineare, mi sembra elemento portante ed intrinseco alla ricerca artistica di Zago. Con assoluta franchezza egli, soprattutto nella produzione più recente che sembra liberarsi da anamnesi informali troppo pressanti, tesse sulle superfici con ancora zavorre di materia, un inno alla vita, all’Assoluto, dimensione per troppo tempo disertata dai pensatori ed in genere dagli uomini di cultura del nostro tempo, a causa di una chiusura ideologica preconcetta. Ma ora le remore sono venute meno.

E quali sono i frammenti di vita e dell’Assoluto che il lettore attento può individuare nell’opera di questo bravo artista, che al limite potrebbero capovolgere la tesi esistenzialista dell’interpretazione fornita sinora? Presto detto: l’annuncio profetico del seme, che pur in terra arida germoglierà in fiore; la potenzialità energetica della materia alla quale per intervento demiurgico non è estraneo un finalismo razionale; e per produrre motivazioni dalla valenza estetica, quella musicalità genesiaca, ludica che si genera dallo spartito cromatico metaforicamente analogo a quello del pentagramma.

E poi quel silenzio pieno, capace di imprimere un sigillo di minimalismo ascetico: una sorta di richiamo alla spiritualità del deserto, ove pur raramente si concretizza il miracolo di un fiore che sboccia del suolo arido ed assetato. E’ il miracolo che si verifica in un romantico “giardino d’inverno”.

Leo Strozieri