Chieti – Italia
2007 Cromosoma colore: continuità storica nella pittura di Antonio Zago
Forse anche i luoghi, similmente agli esseri umani, hanno un proprio destino, costruito sull’intreccio di svariati e numerosi fattori: una straordinaria geografia culturale strutturata da istanze e situazioni così tanto intrinsecamente proprie di una territorialità da costituirne quasi una sorta di codice genetico, fatto di elementi riconoscibili almeno quanto quelli della fisionomia di un volto. Non è per casualità, quindi, che il pittore Antonio Zago debba sentirsi figlio legittimo di un formidabile DNA culturale, peculiare della vasta area tridentina, che trova il suo magnifico epicentro in Venezia, storica capitale di una ricerca artistica che dal Rinascimento al Settecento, dal tonalismo di Giorgione alle esaltanti luminosità del Tiepolo, ha affidato i propri esiti, più che al disegno, ai fondamenti espressivi della luce e del colore, sulla scia di una antica sensibilità che muove dall’orizzonte bizantino.
La genesi formativa di Antonio Zago non può quindi prescindere dall’eredità di questo straordinario corredo cromosomico che è nell’aria stessa che il pittore respira. La prospettiva di indagine che l’artista padovano mette in campo, nella definizione pittorica di uno spazio emotivo strutturato sulla luce e sul colore, si palesa attraverso un formulario linguistico referenziato dal più complesso versante non figurativo dell’arte italiana del XX secolo, quello che sin dall’immediato dopoguerra vede nel capoluogo lagunare un centro di eccellenza di esigenze nuove e moderne, attraverso l’azione di rinnovamento espressivo svolta dalle sue celebri Biennali, la spinta propulsiva dell’Accademia, la fattiva operosità di qualificate gallerie, di collezionisti e di mecenati straordinari come Peggy Guggenheim. In particolare, si pensi alle conferme giunte, dalla Biennale del 1948 e da quella del 1952, alle istanze artistiche di sperimentazione offerte dal Fronte Nuovo delle Arti rappresentato da Cassinari, Guttuso, Morlotti, Pizzinato, Santomaso, Vedova, Leoncillo e Viani, e dal Gruppo degli Otto, di matrice astratto-concreta, costituito intorno alla personalità di Lionello Venturi e formato dagli artisti Birolli, Corpora, Morlotti e Santomaso, che avevano già manifestato nella compagine precedente la necessità di forme nuove ed astratte, insieme a Turcato, Vedova, Afro e Moreni.
Questa radice, di schietta area veneta, fondata sulla rinuncia sia all’approccio figurativo e neocubista, sia al modello dell’astrazione storica degli anni Trenta, rappresenta il cardine strutturale della ricerca di Antonio Zago, che dimostra di aver assorbito coscientemente la lezione di eccezionali maestri impegnati a costruire delle immagini nuove che non presupponessero l’imitazione della realtà e che, al tempo stesso, non ricusassero una possibilità lirica connessa al piacere della materia e del colore, cioè ad un nuovo senso di identificazione poetica con la natura, in sintonia con un concreto “sentire e vivere” la vita.
Non è un caso, quindi, che l’indagine condotta da Zago tenda al sincretismo contenutistico e formale, offrendo la lucida formulazione di uno spazio psichico, dunque umano e reale, fatto di luce-colore, di un ideale concetto di armonia cosmica unito ad una percezione di equilibrio, di distanza giusta dalle cose del mondo, che l’artista riesce a cogliere nella bellezza pura ed essenziale della realtà naturale, così come dentro ai conflitti dei suoi stati d’animo. Senza togliere nulla alla forza di tanti straordinari artisti, si può ritenere che la particolare direzione della pittura di Zago, così incentrata sull’esplorazione delle infinite e complesse combinazioni offerte dalle vibrazioni della luce, lo porti in diretta filiazione con certe istanze conformi al Movimento Spazialista. Si pensi, in tal senso, alla luminosità metafisica dei paesaggi lagunari di Virgilio Guidi, e soprattutto ai contributi offerti da due maestri Veneziani quali Mario Deluigi e Tancredi. Da Deluigi che afferma: «Non sarà che dal colore scaturisce la luce; vero è il contrario: solo la luce è colore», fondando tutto il suo lavoro sulla ricerca della rappresentazione della luce, Zago eredita l’orientamento estetico a rappresentare la propria dimensione umana e vitale attraverso l’emozione della luce che dà colore, dà forma, dà corpo, sostanziando lo spazio, che altrimenti sarebbe solo vuoto plastico, quel vuoto esistenziale che in Lontano da me Fernando Pessoa ben comprende: «sento che niente sono se non l’ombra di un volto imprescindibile nell’ombra: e per assenza esisto, come il vuoto».
Zago non ascolta il nichilismo di una sottrazione totale che tutto toglie senza dire nulla. La sottrazione è per lui una necessità di verità, di pensiero che si fa strada liberando energia. Lo sostiene il concetto deluigiano del grattage che pure si richiama all’ascolto surrealista dell’inconscio, all’atteggiamento di rifiuto costruttivo della forma assunta come realtà già definita. I “graffi” che Zago imprime al pigmento, non sono solo il risultato di una scrittura automatica, piuttosto hanno la forza di “svelare”, di rigenerare la luce, lasciandola affiorare alla superficie della tela, rivelando la possibilità di nuovi rapporti cromatici, di inedite vitali vibrazioni che quasi sorprendendoci, rimettono in discussione tutta l’organizzazione del quadro. La pittura dunque non come mistificazione del reale né come forza sottrattiva, ma come infinita possibilità costruttiva, in sintonia con quanto accade in natura sia sotto la lente di un microscopio che dentro la reale bellezza di un luogo che potremmo immaginare come un giardino in cui sia gli elementi visibili, quanto quelli invisibili sostanziano la sua identità estetica. La natura, con le sue metamorfosi germinative, così anarchiche solo all’apparenza, resta un modello per l’artista: «Natura è la cosa immensa che non da tregua perché la sentite vivere tremando fuori, dentro di voi» – scriveva Morlotti alla metà degli anni Cinquanta, richiamandoci all’esperienza informale vissuta dagli artisti padani raccolti intorno a Francesco Arcangeli, nella linea del cosiddetto Ultimo Naturalismo. I segni impressi da Zago, vivono la condizione di una profondità emotiva che trasforma la tela in muro, in un luogo fisico, quasi un piano di rifrazione, sospeso nello spazio, perpendicolare all’incidenza della luce. Altrove, le sue graffiature diventano piccoli e fugaci disegni, di ascendenza infantile che svelano una realtà sottostante, in modo così rapido da chiamarci le velocità di consumo del nostro vivere contemporaneo. Inoltre, essi affermano assai bene quello stream of consciousness, che si trasmette da Joyce a Svevo e che si appunta in una Trieste capace di ritornare geneticamente all’anima tridentina del pittore: se le stratificazioni culturali del mondo contemporaneo impediscono, come delle barriere, la libera rappresentazione dei pensieri, l’abolizione delle norme precostituite la riabilita, in nome di una nuova logica associativa che l’artista padovano ci dimostra eliminando negli strati sottostanti ogni impedimento tra la percezione emozionale del reale e la rielaborazione mentale di questo: «L’arte è lo specchio della personalità individuale – scrive Zago nel 1995 – e deve riflettere le ragioni più intime della vita, quelle del cuore, la sincerità e la libertà. […] Abbandono senza limite ai propri sogni e alle proprie fantasie. Voce ed eco dell’infinito. Evocazione magica nell’anima in contato con l’assoluto». Allo stesso modo egli dimostra di saper rileggere in chiave attuale, la bella testimonianza offerta dal pittore Tancredi, il credo pittorico in una dimensione naturale dell’esistenza, il senso dell’istinto, della fantasia, i richiami all’iconografia del fiore che improvvisamente “spunta” con delicatezza nelle sue tele, e che altrove, invece, manifesta un senso di disagio che si consuma nella dimensione di scabre foglie graffiate sul bianco pigmento, metafora di un principio “igienizzatore” che il mondo contemporaneo infligge alla natura, rendendola inerte ed asettica. Corre richiamo, nella perizia del pittore di sentire certe cose e di trasmetterle in maniera tattile, alle celebri “foreste” che il surrealista Max Ernst realizza negli anni Venti e che parlano una lingua pietrificata ed ancestrale, affine al fossile, in cui l’unica forza vitale è posta solo nell’intervento vivificatore dell’artista. Ricorre anche la sagoma, simpatica nella sua primitiva istintività, di forma ripescata nell’inconscio, di un uccellino che irrompe, con reiterata impertinenza nelle tele di Zago, assimilabile all’immagine stessa del soffio vitale, dello spirito energico dell’artista. Riaffiora, sule ali di una colomba, il mito greco di Ecate la triplice, che riesce allo stesso tempo ad essere fanciulla, madre e vecchia, in grado di viaggiare liberamente tra il mondo degli uomini, quello degli dei e quello dei morti. Un uccello che, nella tradizione cristiana diviene simbolo di pace e di riconciliazione, e che si accompagna, nell’immaginario dell’artista alle altre forme elementari che egli ci rende con automatismo di tratto: strani pesci ed altre creature di infantile suggestione che ci richiamano una crescente necessità di purezza e di ritorno alle origini, indispensabili alla comprensione del mondo. Alfabeti segnici di elementare ed assai poetica impronta, in cui anche l’elemento più semplice manifesta il suo valore, il suo peso specifico, all’interno di una scrittura che non toglie spazio alla materia cromatica, restituita, con sensibilità tipicamente veneta, in un gioco articolato di tanti e difficili equilibri che trovano proprio nel colore il loro fattore unificante. Un universo complesso quello che Zago esprime nel quadro, un mosaico di tessere, di frammenti, di appunti in cui irrompono tante particelle cromosomiche di intelligenze magnifiche che qualificano il suo lavoro come esperienza di vera continuità culturale.
Come non considerare nel principio della polarizzazione della luce, che egli attua con grande sensibilità, il sentimento umido e atemporale dello spazio del goriziano Zoran Music, o quello del colore tangibile e sonoro affermato, anzi “Gridato” con lucida denuncia da Emilio Vedova? Questa straordinaria linea di successione interrotta e sempre aperta, si chiama amore per la pittura e Zago ne è interprete eccellente.
Maria Cristina Ricciardi
© 2017 Antonio Zago