Venezia – Italia – New York – USA
Direttore dell’Istituto di Cultura Rumeno e commissario aggiunto per la Romania della 46ª esposizione internazionale d’arte di Venezia
1992 “Emografia”: scrittura su di noi con noi stessi.
EPISTOLA INTERROGATIVA, INFORMALE, AMOROSA SULLA PITTURA DI ANTONIO ZAGO.
1° CAOSMOS
Caosmos sarebbe una parola idonea per nominare la soglia fra caos e cosmos, tra il disordine e l’ordine del mondo. Caosmos richiama due realtà opposte collocate l’una in seno all’altra, nel divenire universale della natura naturans.
Nella studio del padovano Antonio Zago la sua pittura mi si è svelata istantaneamente come un andirivieni tra le metafore del caos e del cosmos; un cosmos fra l’esibirsi dello spettacolo meraviglioso. Solare del mondo e i suoi arcani taciturni nel loro connubio e nel loro intervallo laddove si affacciano come campi: tessuto, tessitura, testo (quasi) astratto del grande corpo del Mondo. Una pictura picturans.
È una prova di difficoltà, quest’esercizio di trascendere – ripetutamente – al di là dell’imene del visibile, sotto l’inviluppo del corpo del Mondo, in cui la bellezza lascia spazio all’espressione dell’interessante, dell’incanto; in cui il Mondo è di se stesso espressivo, espressionistico: spazio in cui l’artista scrive se stesso, la materia esibisce se stessa, la pittura cerca se stessa.
Questo tipo di esperienza è l’atanòr delle illustri tautologie del secolo: mentre l’alchimista alla ricerca dell’oro finisce con l’approssimarlo a se stesso.
Le superfici intensamente travagliate mi hanno lasciato attonito per le sferzanti pennellate: come una continua domanda rivolta alla tela, mentre l’oro aleggia come una eco lontana e la tela è una risposta fugace, sempre rimandata.
In un ambiente – artista e critico – in cui “nessuno legge nessuno, nessuno cita nessuno”, oppure se lo fa, dimentica le virgolette, sto dichiarando che ho letto pagine di critica dedicate all’opera di Zago, – lettere pertinenti alle sue immagini – e che mi ritrovo in questi commenti e in questo tipo di analisi: un metodo che si “estrae” dall’immagine, attraversandola senza cagionarle alcuna ferita…
Nell’Estremo Oriente i commenti intorno all’opera d’arte si chiamavano “ali”. Lo studio di Zago ha già le ali più idonee germogliate e cresciute attraverso le letture di Giorgio Segato.
Trovo quindi inutile parafrasare una lettura che mi dà già soddisfazione anche perché la pittura davanti alla quale accade farebbe correre il rischio di aruspicare o, meglio, predire con i fondi di caffè.
Si potrebbe quindi tradurre infinitamente il problema delle origini neuro-vegetative della sua pittura laddove sembra collocato il tipo di espressione e di sensorialità surriscaldata delle sue tele figurative, del “nerbo” del plesso solare che nutre l’immaginazione, delle fiaccolate che penetrano le notti magiche del nero, del distacco che genera cordialità alle maschere primitive, dei fantasmi del buon selvaggio personale.
Da quel poco che mi rimane da dire sto scegliendo un interrogativo sospeso nella mia professione critico d’arte e nella professione di fede di questo anomalo mestiere.
Quale è il cielo della pittura di Zago? Che cielo ha l’artista dentro di sé?
Nei tempi e paesi remoti una formula di saluto sarebbe stata uguale ad un simile interrogativo: che posto porti in te?
La mia domanda vuole essere in definitiva un saluto ad un amico coetaneo con cui condivido sin dall’inizio del nostro incontro gli stessi dubbi ed alcune pochissime convinzioni – anche se queste fossero oggi il segno del ridicolo. Faccio la domanda a quella metà della pittura di Zago databile all’ultimo periodo del suo studio, proprio quella che sto apprezzando di più perché è più libera dalla narrazione e da agganci epici.
Tutto ciò che segue potrebbe essere la premessa ad un interrogativo che mi pongo sempre al di là della retorica. Vorrei anch’io possedere la certezza; quindi, la domanda è euristica.
2° I TRE PARADOSSI DELL’INFORMALE
Il paradosso dell’immagine informale è che da un lato essa testimonia il panico collettivo e dall’altro partorisce la delectatio personale della lettura critica. L’interpretazione dell’informale è all’origine della lettura, della scrittura, della letteratura. Da questo punto di vista è anche all’origine del pensiero critico, ed è qui che il critico precede l’artista.
L’informale è la placenta, il liquido amniotico del critico d’arte… Davanti ad esso ti comporti come un geomante, come un cacciatore che riconosce le impronte della sua preda. Il primo slancio naturale vissuto dirimpetto ad una scrittura informale è retto dal gioco del riconoscimento dei segni della realtà. Proprio questo rapporto spostato nel nostro secolo potrebbe spiegare la fluvialità della critica. Nessuno dubita che questo sia il secolo più “informale”, perché pluralistico, della storia dell’arte che richiama e spiega una “proporzionale” necessità ermeneutica. Proprio per questo la coscienza critica è l’unico capolavoro artistico del ventesimo secolo coscienza condivisa dall’artista e dal critico.
Di fronte all’informale si sente il bisogno di ordinarlo come fece il saggio che leggendo le tracce degli uccelli su una spiaggia deserta ne ricavò l’alfabeto dei primi ideogrammi; come il monaco cinese che ebbe la rivelazione di un nuovo stile di scrittura notando sul sentiero che lo portava a casa una impronta duttile della lotta fra due serpenti.
L’informale è la sorgente del proprio diletto perché esso lusinga il pensiero analogico personale, aumentando la partecipazione creativa del lettore.
Questo clinamen dell’essere – come l’avrebbe chiamato Lucrezio – del paragonare rappresenta in definitiva l’eco di un intuitus e può darsi di una verità perduta. Quella verità palese che questo mondo è trasparente nella sua struttura, organica nei suoi sensi, che tutto è spiegabile tramite tutto, che “tutto è l’universo di tutto”.
Il pensiero analogico è per questo sedotto dal cercare – trovare nelle nuvole, nelle preziose agate le scene della “crocifissione” del “passaggio del Mar Rosso” della “caduta di Troia” a natura depicti, di vedere quindi ciò che l’occhio capisce e conosce. L’occhio mentale, l’equilibrio biologico e spirituale dell’uomo vuole a tutti i costi riposarsi nel riconoscibile – sia sensibile che intellegibile. La reazione di difesa è l’istinto di conservazione dell’essere integrale e di ordinare il minacciante caos del cosmo, di imitare l’atto stesso della Creazione.
Non è affatto casuale che Kandinsky abbia avuto la rivelazione della astrazione guardando a rovescio il proprio acquerello raffigurante la chiesa di Murnau.
Il mettere a fuoco i particolari della pittura di Rubens potrebbe svelare il fermento di De Kooning; Tiziano, Tintoretto, Veronese “nascondono” tutta la modernità della pittura per non ricordare la “scopa ubriaca” di Delacroix e le rêveries di Turner.
Non è un caso che il patriarca dell’informale moderno sia un letterato, il romanziere Balzac, attraverso il personaggio del maestro del “Capolavoro sconosciuto”.
L’arte moderna è identificabile con l’esibirsi dei mezzi e con l’insediamento delle vecchie norme da parte degli antichi strumenti divenuti forme. I veicoli di una volta diventano soggetti dell’immagine d’oggi.
Il gesto artistico si è ribellato diventando autonomo rispetto ad un representamen (ritratto, albero …), la linea si è emancipata del disegno di una icona, il ritmo è diventato schema, le figure geometriche sono diventate protagoniste assolute, il cono della prospettiva monoculare è diventato l’eroe, il colore è diventato spazio fino al “grado zero”, il vuoto di Malevici: la grande corporazione del mondo artistico.
Il nudismo dei veicoli della classicità ha cominciato pian piano la danza della morte dei princìpi.
Il terzo paradosso dell’arte del nostro secolo è che l’idolo della novità è stato adorato tanto intensamente quanto oggi è angoscioso. La cavalcata delle “rivoluzioni” si è spenta nel silenzio museografico in una sfilata senza vincitori e vinti, spalla a spalla artisti, critici, gallerie, musei, collezionisti…
L’attualità stessa diventerà domani pura archeologia. La modernità dell’arte con i suoi principi è entrata nel Purgatorio del tempo giudice. L’unica novità del fine secolo è il vestito entropico della novità, tardium culturae. L’arcipelago delle tendenze senza protagonista è composto dalle repubbliche indipendenti, apatiche e in un libero e casuale commercio di idee, ideologie personali, locali e localizzanti, di coesistenze pacifiche. Riguardo a ciò, è di moda parlare di quanto in quanto della morte dell’arte tramite la “proliferazione” e “contaminazione” secondo Baudrillart.
3° IL BIVIO
Il padrone di questo secolo è stato lo spirito del Tempo, lo spirito della storia. Ce n’è un altro?
Eccoci arrivati ad un bivio.
Dal mezzo del camin di questo secolo ecco due voci opposte che rappresentano ciascuna l’estremità della sua coscienza critica.
L’uno, il grande scettico, il nichilista brillante, il pensieroso antisistemico E. Cioran – la “Cariddi del relativismo” – l’altro, storico, teorico dell’arte H. Sedimayr – la “Scilla dell’estetica assoluta” a seconda del suo modo di esprimersi: leggiamo Cioran in alcuni passi del suo libro “La Fervida Guida” recentemente apparso in Romania dopo il recupero del manoscritto inedito degli anni ’40 – ’44.
“No, no, non sugli astri perderò la vita. Ho perso tanto della luce chiedendo l’elemosina alle altezze. Tediato da ogni specie di cieli ho abbandonato l’anima sconfitta dagli addobbi del mondo.
Vivere: specializzarti nell’errore. Beffarsi delle indubbie verità del finire, non far conto dell’assoluto, trasformare la morte in burla e lo sconfinato in azzardo. Il semplice fatto di essere è estremamente grave rispetto al quale Dio è un povero giocattolo…
Cosicché, amante di se stesso, sguaina l’uomo l’acciaio suo nella crociata degli errori…
Basta, quanto ho travagliato i miei occhi con voi, angeli, santi e cupole!…
Ormai voglio imparare il rispetto delle motte di terra… Che vizio e che tormenti hanno spinto l’occhio verso il soprannaturale? La religione incatena la sua sorte naturale: vedere. Dal Cristianesimo in qua gli occhi non vedono più…
Siccome il niente diviene Dio attraverso la preghiera così l’apparenza – natura tramite l’espressione…
La Nirvanizzazione estetica del mondo: toccare il supremo nelle supreme apparenze. Essere niente e tutto nella spuma dell’immediato. Salire in alto al margine dell’io nell’immediato e nel fugace…
Sono sveglio e non so in che credere… Ma perché quando mi scopro così assente di fede la vita si tramuta nell’io e io sono ovunque?…
Due attributi ha l’uomo: la solitudine e l’orgoglio. Lui sta al mondo per rivelarli. Ma appare la religione: un sistema di rimedi che rovina l’esistenza. Perché l’abbia escogitata l’individuo? Che fabbisogno ha organizzato tanto veleno?…
L’uomo non ha inventato un errore più prezioso ed una illusione più sostanziale dell’io…
Ho voluto riscattarmi e tutte le fedi mi hanno chiesto di rinnegare me stesso. Dai Veda, attraverso Buddha e Cristo, non ho scoperto che nemici della mia necessità. Mi hanno offerto la salvezza nel mio annullamento; tutti mi hanno chiesto di svuotare me stesso – che io sia loro, ossia il loro Dio, che io sia anonimo nel niente mentre la presunzione richiede il mio nome anche nel niente…
L’io è opera d’arte nutrita dalla sofferenza alla tranquillità della quale mira la religione…
L’uomo è arte, è altero e solo. Lui usa la sua terra come pretesto più valido del cielo per ammaestrare la sua esistenza…
Le religioni … vogliono salvarci dall’io, dal più strano fiorire sotto il sole…
Le religioni intendono livellare la svariatezza, sopprimere l’individualizzazione. Il senso della redenzione è la disperazione del nome.
Non accetto un altro assoluto eccetto il mio accidente…
“La verità non sogna mai”, ha detto un filosofo orientale.
Il nuovo non esiste che in noi, non nelle cose né negli esseri…
Lo spirito rode il possibile. E ciò che chiamiamo cultura è abbandono delle nostre sorgenti.
I non-esseri del mondo diventano esseri tramite la parola, il costo siamo noi…
Gli stupidi murano il mondo e gli intelligenti lo buttano giù.
La religione è soprattutto la sua serva, la morale ha rubato all’io e quindi alla cultura la malìa del garbo: il disprezzo… La cultura è una disciplina del disprezzo…”
Ed ora ecco Hans Sedlmayr che sta assumendo nel percorso del suo pensiero la sostanza teorica di Hegel, Baader, Dvorâk nel suo progetto per una storia dell’arte come storia dello spirito (con frammenti del suo libro “Arte e Verità).
…”Lo spirito umano è definito il più profondamente e concretamente possibile dal suo rapporto (anche dal suo rapporto negativo) con lo spirito assoluto: dal rapporto con Dio. “Perché come l’uomo sta a Dio, così sta a se stesso, al suo prossimo, alla natura e al mondo spirituale” (F. Von Baader).
Quanto al metodo, si dovrebbe perciò dedurre che per la spiegazione genetica dell’arte di un’epoca si procede dalla condizione divina. La storia dell’arte come storia dello spirito è in questo caso presa concretamente per una storia dell’arte come storia della religione…
… Il relativismo storico della storia dell’arte misura rango e valore dell’opera d’arte solo nella misura in cui essi sono “espressioni dello spirito del tempo” … Un’epoca … ha ragione di “sfogarsi” quanto un essere umano. Il pensiero di una ascesi imposta alle inclinazioni dell’epoca gli sembra dissennato. “In altre parole, il relativismo non riconosce norme, né umane né artistiche”. Al contrario una fondata dottrina del valore cercherà il criterio centrale di valore di una corrispondenza dello spirito del tempo con aspetti reali dello spirito libero del tempo, o assoluto, o considerata diversamente la cosa nella corrispondenza tra origine e perfezione. Non esiste un’opera d’arte … che tenda alla forma più perfetta … che rinunci a questa tendenza sin dall’inizio…
Sul più alto piano immaginabile la storia dell’arte come storia dello spirito si muta in storia dell’arte come pneumatologia e demonologia. E qui si aprono le ampie categorie di una visione dell’arte che si può pensare come arte del cielo, della terra (…) dell’inferno…
Questo rimprovero – (che la loro arte è solo l’espressione del tempo (n.a.)) addolora l’esponente dell’avanguardia più di ogni altro e da questo ci si rende conto come qui la passione affiori evidente. Essi accetterebbero il rimprovero di sbagliare solo se fossero sicuri che si trattasse dell’errore più nuovo; il rimprovero di non essere moderni fa perdere loro la calma. Direttamente con questo rendono manifesto che lo spirito del tempo ha occupato per loro il posto che lo Spirito Santo dovrebbe occupare per i Cristiani … Per i seguaci dello spirito del tempo il cui orgoglio maggiore era di sapersi all’altezza del tempo, il rimprovero più utile da ascoltare è che il loro stesso tempo è diventato passato e che i loro sentimenti scientifici non saranno valutati nella misura in cui abbiano inverato lo spirito del tempo, per quanto si siano ampiamente avvicinati alla verità.
L’io … maestro e signore del tutto … Il dare valore e annullarlo avviene puramente a piacere dell’io come io assoluto in sé.
L’io è l’individuo vivente, attivo e la sua vita consiste nel fare la propria individualità quanto per sé e quanto per altri, nel manifestarsi e nell’apparire.
In considerazione del bello e dell’arte, questo significa il vivere da artista e il formare la propria vita artisticamente…
E si dovrebbe forse sottolineare particolarmente il carattere tantalico di quest’arte, … Il “velo nero di Ecate” … Arte “veramente infernale”, arte “egoistica e superba” – che “rispecchia dappertutto se stessa”: … in cui (l’artista) “abbandonato da Dio e dalla natura crede di essere diventato signore su entrambi e vaga solo, come inquietante fantasma tra i sepolcri e le reliquie della natura”…
Ci sarebbero quattro tipi di immagine … “l’immagine brutta fallisce la giusta relazione, l’immagine dialettica interrompe la relazione tra l’immagine e quanto va rappresentato; l’immagine ironica governa entrambi a volontà arbitrariamente, l’immagine diabolica inverte ciò che va rappresentato: “del brutto fa bello, del bello il brutto”.
Sotto quale di questi due cieli di idee ci troviamo, noi artista e critico? Tertium non datur.
È indubbiamente la crocifissione della coscienza, della conoscenza in questo secolo.
“Siamo imbarcati”, notava Pascal fissando il binomio complicità-cecità.
Tempo fa quando cominciavo a credere nella necessità della critica immaginavo l’esponente di questo mestiere come un secondo della nave dell’arte, galleggiando sui mari azzurri dello spirito. Mi figuravo un personaggio padrone della consapevolezza e della scienza con tra le mani il sestante e l’astrolabio sempre indicante il quinto punto cardinale, la verticale che ci unisce al cielo. Il critico: autore del giornale di bordo.
I dubbi hanno diminuito il senso dell’orientamento e mi sento sempre meno in possesso di quest’arte. Ammetto solo, segno dell’autenticità, il giornale di bordo di questo viaggio. Il “massimo” dell’artista e del critico è la scrittura di se stessi: emografia: come il “minimo” è il ritrovarsi soli, stupefatti, esitanti davanti al bianco innocente della tela e del foglio di carta.
L’autenticità di Antonio Zago è quindi misurabile secondo me con la sua capacità di risvegliare l’emozione e la meditazione, sotto il cielo dell’arte, nonostante l’inflazione dell’informale di questa ampia chirurgia a cuore aperto che descrive l’attualità dell’arte. Mi scopro complice nel nome di questi interrogativi che volano attraversando il cielo e la biografia di Zago. Artista e critico tessuti nella trama di una comunità di destino, l’uno eco dell’altro.
È ciò che immaginavo intendendo questo tessuto di idee come se fossero le pennellate interrogative di Zago senza avere la pretesa di aver dato alcuna risposta.
Coriolan Babeti
POST SCRIPTUM
Ultimamente Antonio Zago ha deciso di trascrivere questa pittura nei tappeti.
Nel rioggettualizzare la tela dipinta nel tappeto, l’artista aveva intuito la sintonia tra la metafora dell’informale – scrittura – e la tecnica artistica: scrittura informale come tessuto del Mondo, come eco dell’atto della tessitura.
“Nous vivons avec le monstre” nota l’artista di questo secolo; se il mostro fosse la nostra abissalità, l’inconscio degli istinti, dei gesti riflessi … sarebbe l’informale della nostra Psiche.
I tappeti di Zago sono quel mostro addestrato, sottomesso, steso si nostri piedi … parte dell’ambiente domestico; ci camminiamo sopra, lo guardiamo “ dal su in sotto” come se ne fossimo i padroni assoluti, come se nel confronto avessimo vinto.
C. B.
2006 Quiete del silenzio – Musica del colore
E’ così che scrivevo qualche tempo fa ad Antonio Zago dopo esserci ritrovati a Firenze … dieci anni dopo: “Il filosofo elogia il silenzio ma lo fa parlando”. Se dovessi inviare i miei commenti sul suo studio di adesso, degli ultimi cinque anni, gli spedirei una pagina immacolata, per essere riempita da ognuno dei suoi spettatori con i pensieri sussurrati nell’intimità della loro percezione…
Nel suo studio, di quasi vent’anni fa, c’era un vero e proprio campo di battaglia: lui, un pittore battagliero, guerriero inguaribile… Le tele, con immense distese rumorose. Guerre di segni, vincitori e feriti, con dei caduti sotto la furia delle pennellate, con delle cannonate e fucilate che avevano dietro il furore del dipingere se stesso.
Hemografia, scrittura con se stesso, irruzione…
Adesso osservando il suo se stesso, il suo evolvere, la sua avanzata nel tempo, Zago mi offre il compenso del riposo dello sguardo in cui posso vedere la musica del silenzio e sentire la quiete del colore. Infatti lui dipinge sul vacuum … se lo inventa … prima con le campiture, spiagge silenziose di colore che ricordano nelle loro sfumature che il respiro è il primo inter pares degli atti della vita. I polmoni dell’occhio si gonfiano di un’aria malinconica seppur fresca nella quale, sparse su questo vuoto-silenzioso si sviluppa e irrompe la vigorosità di un segno graffiato, sia una corolla di fiore sia una firma del pittore, segno del suo passaggio da queste parti della storia, nell’arte del suo tempo.
Il suo è un invito altrettanto taciturno a sfogliare dentro di noi, ai margini del sogno, del riposo necessario dell’essere, riecheggiando nel “vaso” di questo “silenzio eloquente”.
Coriolan Babeti
New York, 2006
© 2017 Antonio Zago