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Stefano Annibaletto

Padova – Italia

2012   La pittura abitata

E’ un fine di stagione rigida come poche, eppure la neve, che ovunque ha provocato disagi e danni, ha graziato la bassa pianura. Anche in questo lembo di campagna srotolata al fondo dei colli Euganei non si vedono macchie bianche nel paesaggio. La terra se ne sta lì con le interiora rovesciate, zolle grasse e scure che presto saranno seminate. E la luce fredda dell’inverno prende in alcuni scorci, girandosi verso i campi, un tono brunito, di un marrone spento.

Non so quanto questi campi e queste colline si riconoscano nello sguardo di Antonio Zago. Tutta la pittura di questa regione ha fatto sempre i conti con la luce di cieli, acque ed erbe. E se così non fosse, sta una scelta di vita: rallentare, rastremare i pigmenti, diluire la pennellata, darsi uno spazio dove la linea dell’orizzonte è lontana e talvolta si perde perfino nella nebbia umida che sale dal suolo. Qui Zago ha spostato il suo studio; ha pareti scorrevoli che si aprono scomparendo, e attorno cespugli e prati e animali da cortile, un cane domestico, la rocca di Monselice. Poco altro. Un pannello verticale su cui fissare la tela. Un tavolo dove le pennellesse stanno appoggiate in fila, in ordine di misura. E barattoli di caffè con i colori ad olio già diluiti con la trementina, per dipingere velando i colori, per via di sovrapposizioni.

Di tutte le storie che ci passano attorno, solo di poche è dato sapere. Quella di un artista, però, sta scritta nel suo lavoro. Vedo gli acrilici che Zago dipingeva fino a vent’anni fa: carichi di un’energia entusiasta e ribelle. Rapidi nel ductus ma non improvvisati. Lasciati maturare e poi ripresi, finché la densità della materia diventa significativa come la temperatura del suo colore. Di certo la lezione espressionistica era (come tutt’ora è) ben presente. Parlo di quel espressionismo astratto di un Pollock ancora catturato dalle mitologie e dalle loro immagini, e di certe esperienze più recenti, come dei tedeschi “Nuovi Selvaggi”. In quella costruzione tutta per aggiunte stava per Zago l’inquietudine di una passione che urgeva di essere – appunto – “espressa”.

Nel tempo quell’irruenza si è pacificata dapprima in un fiabesco realismo magico sceso a patti con la figurazione e la sua più esplicita narrativa. I dipinti si sono affollati di soggetti. Poi, poco a poco, Zago ha cominciato a togliere pezzi di costrutto, finché nelle stesure omogenee di colore è rimasto solo un fiore, una foglia, un uccello. Contava di più – a quel punto – il trattamento della superficie, che aveva perso la rugosità di un tempo, e cresceva in spessore con i sedimenti di un lavoro più riflessivo e lento, complice la grassa vitalità del pigmento ad olio. Era la conquista, annullato ogni residuo di prospettiva, di un campo di lavoro piatto. Uno spazio bidimensionale, una parete su cui ricominciare a scrivere e a raccontare storie.

Oggi le tele di Zago si impongono nella loro decorata complessità, nel coraggioso equilibrio di un’astrazione meditata e ricca. Una tavolozza scarnificata nei soli colori primari, e nei bianchi e neri, che scendono sulla tela rotolando da un rullo usato per inchiostrare le lastre delle acqueforti. Zago dipinge e lascia asciugare, incide graffiti, ridipinge, qui copre e lì lascia, o fa riaffiorare, sempre negando la profondità. Come tessere di un mosaico veneziano, i gialli, i rossi, i blu si muovono cercando un’armonia che guarda con attento rispetto alla lezione di Tancredi Parmigiani. Viene spontaneo domandarsi, allora, per vicinanza geografica e per affinità di stile, quanto lo Spazialismo possa aver prestato teorie e spunti al suo lavoro. Sembra però che non sia lo spazio e non sia la luce ad interessare Zago, che grattando il pigmento non cerca (come faceva Mario Deluigi) il chiaroscuro, la forma tridimensionale, ma sceglie invece di lasciare dei segni puri. E’ insomma interessato a farci scorgere la superficie, e non la profondità. Immagino che maggiore vicinanza possa sentire quando lavora il vetro, e che conosca e apprezzi gli Speziali che a Murano hanno operato: Vinicio per le forme, Luciano Gaspari per le trasparenze e i colori.

Quando gioca con il bianco, mette “un chiaro” qua e là, a volte Zago no riesce a fermarsi, e finisce per coprire tutto ciò che aveva dipinto. Quel bianco denso, raggrumato, non ha nulla dei bianchi turbinosi di William Turner. Piuttosto ha la ferma solidità dei caolini di Piero Manzoni. Dei fondi fertili di Gastone Novelli. Su questi “muri” Zago ripete i suoi graffiti, gesti mancini che lasciano spazio all’improvvisazione e pure recuperano grafismi di vecchi soggetti ricorrenti, le foglie, gli uccelli, i fiori, come residui di figurazione o archetipi di una personale narrazione. E’ la tela un foglio bianco – appunto – su cui scrivere, prendere appunti, fermare simboli e ricordi. Non c’è protesta e non c’è grido pubblico, quel senso di spazio aperto con cui Antonio Tàpies viveva la materia della sua pittura. Forse più vicina è l’esperienza poetica di Cy Twombly, la sua lenta e apparentemente disordinata calligrafia, quel lavorare la tela come un dipintore che prepara un marmorino prezioso, istoriato o interrotto da curatissime striature. Una privatezza raccolta e silenziosa, un mondo possibile personale che forse, un giorno, potrà accogliere uno spettatore.

E’ che Zago abita la sua pittura. Ci cammina dentro lasciando le sue impronte, le tracce del suo passaggio. Segna confini come se dovesse fondare una città. Spinge un aratro ed è come se noi potessimo guardare dall’alto, vedere solchi paralleli, le scriminature racchiuse tra i fossi che recintano il suo territorio. E’ una pittura fisica, piena di movimento. Il muoversi della sua mano guida il movimento del suo sguardo.

Ci si chiede allora come mai Zago, che graffia il quadro con la punta della spatola, che lo incide come se fosse intonaco, prediliga un supporto morbido e in fondo delicato come la tela e non piuttosto la tavola, capace di resistere con forza maggiore al suo segno. Immagino che sia per controllare la forza della sua pressione, per mantenere un gesto leggero, e con questo controllo non sfociare mai nell’automatismo inconscio. Ogni atto è consapevole, tutto contribuisce a tradire l’inganno della pittura, a non farci scordare i limiti dell’inquadratura, a rendere costantemente evidente al nostro sguardo la piattezza di quella superficie. Perfino la finitura opaca, che Zago accentua tirando la tela con la vernice a cera, con gesti premurosi, come un falegname accurato e paziente.

Ma dove questo incantesimo si spezza (e sono lavori di un misticismo che rammenta Rothko) è nei grandi teleri scuri in cui, da un punto in fondo ristretto, si spande una luce. Qui il registro stilistico vira d’improvviso. Il gioco tonale diventa luminismo, il nero si stempera nella terra d’ombra bruciata e nella sapiente velatura a bitume. Il nero ci appare allora (eco il colpo di teatro) non come campitura piatta, ma come buio improvvisamente profondo.

Cosa si nasconde dentro quell’oscurità? Cosa sono quei segni cicatrizzati sulla superficie, sono forse gesti nell’ombra, sagome di cose inanimate o altro? In quei dipinti si vorrebbe entrare: ci ferma solo la paura di urtare qualcosa che non vediamo, e che ci potrebbe ferire. Allora lasciamo andare lo sguardo, la luce è calda come quella di una candela di Georges de La Tour.

Forse, se aspettiamo, quel chiarore diventerà più intenso. Forse andrà via quel buio.

Stefano Annibaletto